PROLOGO:
Bologna, Italia
L’edificio
che sorgeva in Via Aldo Moro era di recente costruzione, un piccolo gioiello
voluto dall’amministrazione comunale per affermare il primato del ‘Quartiere
Fieristico’, già importante polo di esposizioni internazionali.
Il Centro di Coordinamento Commerciale
ospitava la nuova Camera di Commercio, un albergo a cinque stelle, la Direzione
Poste dell’Emilia Romagna e quant’altro servisse per mettere il cuore informatico
e delle comunicazioni di Bologna in contatto con il resto del mondo senza
inutili dispersioni immobiliari.
Gli
ultimi due piani dell’edificio a 20 livelli erano occupati da una particolare
agenzia: il suo nome era Polizia Speciale
per le Minacce Paranormali. PMP, per gli addetti ai lavori.
Non
si trattava di un’istituzione ‘nera’, tutt’altro: qualunque cittadino che
avesse voluto documentarsi sulla PMP avrebbe solo dovuto cliccare
sulla URL del sito o comporre il numero verde.
Naturalmente,
ciò presupponeva il desiderio del pubblico di informarsi su degli uffici che
non si facevano certo pubblicità.
Nell’ennesimo
tentativo di emulare gli Americani, il Governo italiano aveva deciso di
investire un capitale in una struttura simile all’FBSA, con identiche finalità e, soprattutto, caposaldo europeo
di riferimento nella categoria, dopo la chiusura di Eurolab ed Euromind[i].
Almeno, nelle intenzioni.
Guadagnarsi
gli allori toccava al lavoro certosino del personale e, soprattutto, delle
punte di diamante della PMP. La…
MARVELIT presenta
Episodio 1 - Sotto
una sola bandiera
La
porta di cristallo si aprì, ed entrò un uomo trafelato -più che un uomo, quasi
un ragazzo. Un esemplare mediterraneo, non alto, dai capelli corvini e folti e
una pelle olivastra. Il severo completo che indossava lo rendeva goffo
all’apparenza, quando era in realtà percorso da un’energia nervosa. “Generale,
abbiamo la lista completa!”
Il
comandante della PMP sedeva ad una scrivania di spesso cristallo. Era un uomo
corpulento, ma robusto, come un grizzly solo all’apparenza pacioccoso. Il
Generale Goffredo Vitale era un uomo
arrivato con pieno merito alla sua attuale posizione, un veterano che si era
fatto tutti gli scenari di guerra più recenti, dal Kosovo all’Iraq, a caccia di
spie e terroristi, per conto del SISMI.
Vitale
fissò il ragazzo con una tale occhiataccia che i suoi occhi grigio acciaio
sembrarono volere perforare il cranio di quest’ultimo.
Il
ragazzo, il segretario particolare del Generale, deglutì mentre si fermava di
colpo. Si mise nervosamente sull’attenti e fece il saluto. “Uh…signore.”
Vitale
sospirò. Il Tenente Diego Scalamare
era un bravo elemento…quando si ricordava di esserlo. Va bene che gli era stato
assegnato per grazia dei suoi influenti parenti, ma almeno lavorava sodo per
davvero. Cosa insolita, per un Napoletano…si concesse di pensare con un pizzico
di malizia.
“Da’
qua,” disse Vitale. “E calmati pure. Ho già fatto colazione, stamattina.”
Il
giovane posò sulla scrivania una custodia con un DVD. La custodia era
accuratamente sigillata con un nastro giallo su cui, a lettere rosse, spiccava
la parola ‘SEGRETISSIMO’.
Vitale
ruppe il sigillo, aprì la custodia e prese il DVD. Se lo rigirò in mano,
guardandolo come se l’oggetto potesse parlargli… “Hai detto completa? Tutti e
quattro? Secondo tutte le specifiche?”
Diego
annuì. “Fra i 25 ed i 35 anni, di idee che vanno da sinistra a destra, nessuno
di loro è tesserato o legato in qualche modo alla classe politica o alla
criminalità organizzata, coprono le principali categorie di super-esseri, e c’è
una donna. Secondo la Palestra, possono formare la Squadra che cerchiamo.”
Vitale
annuì. “Speriamo bene. Ho dovuto fare cadere diverse teste, perché
rispettassero le specifiche. Cristo, persino quando si tratta di difenderci dai
terroristi o dai supercriminali, ci sono stati addosso per infilare qualche
inetto raccomandato… Obbe’,” aggiunse, infilando il DVD nell’alloggio sotto il
monitor del suo terminale. “Vediamo un po’ questi campioni del Belpaese. Anche
perché non ci rimane molto tempo prima di presentarla al pubblico…”
Il monitor si accese.
Roma
“Qui
Pattuglia 22, qui Pattuglia 22! Il sospetto si dirige verso il casello! Dove
diavolo è finito l’elicottero di supporto?”
L’inseguimento
fra l’auto della Polizia e una FIAT Punto truccatissima era stato, fino a quel
momento, degno di un episodio delle Strade
di San Francisco.
Al
volante dell’Alfa Romeo stava il 29enne Cesare
Regolo, dell’unità antidroga. Sul sedile accanto a lui, al posto del suo
compagno di pattuglia, stava qualcuno che Cesare considerava più importante:
una femmina di pastore tedesco dal manto
focato perfetto, che in quel momento fissava l’auto degli spacciatori come
fosse stata un cervo da azzannare.
Dalla
radio gli giunse una statica, poi, “Pattuglia 22, l’elicottero è stato
richiesto d’urgenza per un incidente sul Raccordo Anulare…”
“Tipico,”
sbuffò lui. La lupa uggiolò in solidarietà.
“I
rinforzi sono a dieci minuti da te. Oh, a proposito: Antonio sta bene, la
pallottola è entrata e uscita. Ne avrà per un mese al massimo.”
“Lo
so, lo so, volevo chiedervelo, cosa credi?” Il silenzio dalla radio fu
abbastanza eloquente, come risposta. Quello che importava veramente al
poliziotto, però, era che adesso era da solo a cercare di acchiappare quei
figli di buona donna! “Saremo io e te e basta, Roma, ma faremo vedere loro cosa
sanno fare due trasteverini DOC! Vaaaaiii!” diede ancora gas., accorciando
ulteriormente la distanza con la preda.
Figlio
di poliziotto, nipote di carabiniere, bisnipote di soldato decorato al valore,
Cesare aveva la legge nel sangue e tutte le intenzioni di farla rispettare. Un
raro esempio di poliziotto ligio al dovere, capace di avvicinarsi paurosamente
al ciglio dell’illegalità, ma senza mai oltrepassarlo.
La
Punto sfondò il paletto del casello automatico. L’Alfa le sfrecciò dietro.
I
malviventi si infilarono fra due camion che in quel momento stavano uscendo dai
loro caselli. Ci passò per un soffio, lasciandosi dietro dei gran accidenti in
clacsonese.
“Ti
credi furbo, eh? Reggiti, bella!” disse alla lupa. E lei, che conosceva bene il
suo padrone, si infilò sotto il cruscotto. In quel momento, Cesare diede una
sterzata micidiale!
Negli
specchietti, i camionisti videro qualcosa che avrebbero raccontato per giorni
ai loro colleghi sul CB: l’Alfa della Polizia si impennò su due ruote! In quella posizione, si infilò fra i camion, usando
la fiancata di uno come appoggio.
La
Punto, ritrovandosi il veicolo maledetto negli specchietti, tentò di nuovo
un’accelerata…ma, a quel punto, l’abusato motore decise che ne aveva avuto
abbastanza di quella gara. Fiotti di fumo e di vapore uscirono dagli sfoghi del
cofano e dal radiatore. In un attimo, i malviventi si trovarono completamente
accecati.
Fu
solo per un miracolo che l’auto, sbandando, non andò ad urtare contro altri
veicoli. Percorse cento metri attaccata al guardrail, generando una pioggia di
scintille, e finì la sua corsa in uno spazio di soccorso. Urtò con forza la
protezione, e non si mosse più.
L’Alfa
la raggiunse proprio mentre due uomini stavano uscendo dal rottame. L’auto si
fermò con un gran stridore di freni. Senza neppure spegnere il motore, Cesare
fu fuori a pistola spianata. “Polizia!
Fermi dove siete!”
Mentre
uno ancora tentava di darsi alla macchia, il suo complice puntò l’arma sul
poliziotto per tenerlo impegnato.
Cesare
fu più svelto: disarmò con un solo colpo il criminale…e non si avvide che
l’altro, disperato, aveva puntato la sua pistola su di lui. Ma non avrebbe
sparato: con un ringhio tremendo, Roma gli fu addosso, azzannandolo al polso.
L’uomo urlò, cadendo a terra, divincolandosi, dando pugni ai fianchi muscolosi
di lei, ma ottenendo come sola ricompensa di sentire le ossa del polso
scricchiolare.
Poi
la lupa mollò la presa…perché Cesare era arrivato. Il poliziotto si inginocchiò
sul criminale, che stava pronunciando qualcosa di incoerente in lingua serba. “Spaccio
e possesso di stupefacenti, resistenza alla legge, ferimento di un poliziotto…”
Cesare ammanettò le gambe del criminale. “Bello mio, basterebbero solo le nuove
leggi sulla droga, per farvela passare proprio male.” Finito, tornò alla
macchina per andare a chiamare un soccorso medico ed il carro attrezzi,
lasciando a Roma il compito di sorvegliare il prigioniero.
Cesare Regolo, candidato capogruppo. Nome in
codice: Vessillo.
Toscana,
da qualche parte nell’Appennino
La
baita non aveva nulla di speciale: era una struttura semplice, di due piani, di
tronchi di legno e sasso. I soli segni di modernità visibili erano l’antenna
parabolica, e le finestre a vetri doppi. Dieci anni fa, la baita era stata
acquistata da un privato e rimessa in sesto. In precedenza, era stata un’’oasi’
per i contrabbandieri con le loro gerle, oggi serviva come rifugio per un altro
tipo di criminali…
Non
disponeva di strumenti sofisticati, non ne aveva bisogno: dalla sua posizione,
sulla sommità di un precipizio, collegata al resto del mondo da una stradina
sterrata su cui solo un veicolo poteva passare, e solo lasciandosi dietro una
fitta scia di polvere, si poteva scorgere qualunque ‘ospite’ indesiderato. Ed i
suoi occupanti erano armati fino ai denti.
Inoltre,
disponeva di un minibunker ben fornito e dotato di un generatore autonomo. Se
proprio qualcuno avesse insistito a bussare alla loro porta, non avrebbe
trovato altra persona che l’anziano custode a riceverlo.
Il
custode si chiamava Tonio, aveva 72 anni, portati benissimo come ogni buon
montanaro che si rispettasse. Come ogni giorno a quell’ora, stava facendosi un
solitario dopo il pranzo. Non aveva mai avuto l’abitudine di sonnecchiare
durante il giorno, e appena sentiva l’abbiocco giungere, preparava un bicchiere
di rosso e le carte, e giocava fino a quando non si sentiva di nuovo lucido e
vigile…
Il
suono del motore attirò la sua attenzione: un veicolo di grossa cilindrata,
forse un fuoristrada.
Poco
dopo, un altro uomo anziano scese le scale. Aveva i capelli completamente
bianchi, il volto era una carta geografica tante che erano le rughe, ma
camminava ancora eretto, e gli occhi rispecchiavano un grande fuoco interiore.
“E’ qualcuno che conosci, Tonio?”
Il
custode scosse la testa. “Abbiamo appena fatto rifornimento, signore, e la
posta sarà qui solo fra una settimana.”
L’uomo
finì di scendere le scale, scuotendo la testa. “Che vita, che vita…” sospirò,
finendo di scendere le scale. Si diresse al salotto. Da lì, sarebbe sceso nel
bunker. C’era tempo, o Tonio non l’avrebbe presa così calma…
“Si
è fermato,” disse Tonio.
“Forse
hanno sbagliato strada,” disse l’altro uomo. “I giovani d’oggi: credono che
qualunque baita significhi agriturismo.”
Tonio
fece per dichiararsi d’accordo…quando qualcosa sfondò la finestra! In un
secondo, non vide la propria vita scorrergli davanti agli occhi, ma
l’inconfondibile forma di un missile.
Osservò come ipnotizzato, incredulo, lo sbocciare del fiore fiammeggiante. Poi
i suoi occhi furono consumati, e non vide più nulla…
L’uomo
in piedi attraverso il tettuccio annuì soddisfatto alla tremenda esplosione. La
baita scomparve in un mare di fiamme.
L’uomo,
appena un venticinquenne, dal volto scavato e dai lineamenti tetri, con indosso
un basco, posò il lanciamissili sul sedile. Dal suo giubbotto militare
grigioverde prese una telecamera digitale, la mise in funzione e registrò
l’incendio. Parlando con una voce roca e bassa, disse, “Rapporto #23-a,
capitolo 51, giorno 121. Roberto Maltesta, Generale della divisione Fascia e
Teschio dell’esercito della RSI, processato in contumacia per gravi crimini di
guerra, ed il suo luogotenente Tonio Riverberi, hanno pagato oggi le loro
colpe. Spero siate soddisfatti.”
Chiuse
la telecamera, la rimise in tasca e tornò al volante. Prima di mettere in moto,
si concesse un sorso di grappa -il bicchierino della vittoria, come lo
chiamava. Quando fosse tornato a casa, si sarebbe concesso anche una sigaretta,
va’.
Poco
dopo, la jeep partì, muovendosi in un’impeccabile retromarcia.
Vittorio
Longarno, cacciatore di taglie per conto delle famiglie delle vittime del
nazifascismo. Nome in codice: Partigiano.
Napoli
“Mi
creda, non abbiamo intenzione di rifiutare sua figlia a prescindere. E’ una
questione di disponibilità di posti. Siamo al completo, per questa stagione..”
Un
altro lampo riempì la stanza. La modella, un esemplare di eterea valchiria,
fasciata solo di veli semitrasparenti, si appoggiava al balcone di un set,
guardando con espressione rapita verso un orizzonte immaginario.
Gli
spettatori erano due donne: una giovane, dai capelli corvini, con indosso un
severo taileur grigio chiaro ed un paio di occhiali a montatura stretta.
L’altra era indubbiamente una rappresentante del jet-set, indossava un abito
lungo firmato, portava accessori firmati, e sotto il cappello aveva tutta
l’aria di chi non volesse saperne un’acca di farsi dire di no. “Signorina
Conte, in quale lingua devo dirglielo? Questa è l’occasione migliore che ho di
piazzare Angela nelle prossime sfilate di Milano. Lei stessa mi ha detto del
suo talento naturale, anche se francamente non mi sorprende, avendo preso tutto
da me. Come è possibile che non si
riesca a trovare…”
Elisa
Conte, titolare dell’Agenzia di Modelle Nefertiti, la interruppe educatamente
-per l’ennesima volta. “Le richieste sono fissate dalle stesse case che
preparano quelle sfilate. Non siamo noi ad imporre il numero. Capisce?”
Entrarono
nell’ufficio della titolare, dominato da una foto, dietro la scrivania, della
modella per eccellenza, Millie. Anziché sedersi alla scrivania, si sedettero
ognuna su una poltrona, intorno ad un tavolino, dove le attendevano due belle
tazze del miglior caffè. Elisa ci mise due zollette, la donna un velo di latte.
Bevvero, fissandosi a vicenda, guardinghe come due leonesse in attesa di
trovare un punto debole l’una nell’altra.
Posate
le tazzine, la donna sfoderò il suo asso nella manica, il passepartout per
eccellenza: “Quanto?”
“Prego?”
“L’ammontare,
mi sembra ovvio: una casa di moda vi pagherà una cifra per le vostre modelle. Io
vi pagherò il doppio, perché mettiate Angela in cima alla vostra lista.
Prendete, e vi farò ancora più pubblicità di quanta non ve ne facciate voi. Se
non accettate, farò in modo che non possiate reclutare nemmeno ‘na zoccola per
la sfilata Capofogna. Sono stata una modella, e conosco il giro meglio di
quanto crediate.”
Elisa
sfoderò un tono professionale così gelido che la temperatura della stanza scese
di parecchi gradi. “Signora Forte, delle sue ‘velate’ minacce saprei
francamente cosa farmene, ma poiché non siamo al mercato rionale, mi
accontenterò di chiederle…” prese il bloc notes sul tavolino, e vi scrisse una
cifra. Strappò il foglietto e lo porse all’arrogante arricchita.
Lei
studiò la cifra, e sembrò impallidire.
Elisa
unì i polpastrelli, tenendo i polsi sui braccioli. “Va bene anche un assegno.”
“E’
un furto,” sbottò la Signora Forte.
“Io
preferisco chiamarlo ‘indennizzo morale’. Se veramente ci tiene a vedere sua
figlia indossare i Dolce & Gabbana della prossima stagione, noi gliela
piazziamo. Se non ci ritiene all’altezza, può sempre andarsene.”
Borbottando
qualcosa in dialetto stretto, la donna estrasse dalla borsetta Emporio Armani
un blocchetto di assegni. Staccò quattro foglietti per coprire la cifra, per
poi porgerli con un’espressione ammonitrice.
Elisa
li prese con un sorrisetto. “Domani mattina alle ore undici. Puntuale, per
favore. Abbiamo un calendario molto fitto e poco tempo…” prese due degli
assegni, e li ridiede alla Signora Forte. Quest’ultima rimase perplessa.
Elisa
sorrise. “Volevo solo vedere fino a che punto lei ci tenesse. E se non dovesse
essere soddisfatta, anche gli altri due le torneranno indietro.”
La
donna mostrò un’espressione imbarazzata. “Gesù, se sapesse quanto mi dispiace
di avere pazziato così, prima. Davvero…”
Elisa
annuì. “Una figlia d’arte va coccolata e curata, e siamo lieti di contribuire
alla continuazione di una tradizione.” Porse la mano, subito ricambiata. “Ed
ora mi scusi, ma gli impegni…”
La
Forte si alzò. Effettuato un altro rituale di saluti, uscì, lasciandosi dietro
una Elisa Conte molto soddisfatta…anche se per motivi ben diversi da quelli che
si possono immaginare.
La
giovane aspettò che fossero passati dieci minuti dall’uscita della donna…poi,
l’ufficio stesso, dalle pareti al pavimento agli arredi -tutto tremolò, come
un’immagine sfocata.
Un
momento dopo, ‘Elisa Conte’ sedeva su una sedia sgangherata, in uno squallido
locale illuminato da una sola lampadina ad incandescenza. I suoi begli abiti
erano diventati una T-shirt bianca e blue jeans sbiaditi. L’unica cosa rimasta
di quell’incontro erano i due assegni, gli ultimi di una lunga serie da quando
aveva aperto l’’agenzia’.
La
giovane si alzò in piedi -non era proprio onorevole usare i propri poteri per
una truffa; certi suoi ‘colleghi’ potevano ottenere lo stesso risultato ad
occhi chiusi, vero…ma poi bisognava pagare i complici, senza contare i tempi
per la selezione…
La
ragazza si alzò in piedi. Si diresse allo ‘studio’, dove due manichini posavano
al posto del fotografo e della modella. Con ‘Mork e Mindy’ ne aveva fatta di
strada, e al massimo aveva dovuto metterci l’antitarlo e lucidarli un po’!
No,
non era proprio onorevole usare dei superpoteri, ma rendeva da dio!
Benedetta
Mariacorona, mutante. Candidata agente Madrepatria.
Corsolungo,
Sicilia
Situato
alle falde dell’Etna, Corsolungo era uno degli innumerevoli paesi che
costellavano l’entroterra Siciliano. La sua storia non era diversa da quella di
tanti agglomerati nati come insediamenti di pastori secoli addietro. La terra
era ricca, fertile, e i pascoli non mancavano.
Corsolungo
era maledetto anche da una falda acquifera di ottima qualità.
‘Maledetto’.
Un termine non usato a caso: in una terra dove l’acqua era una risorsa che
giustificava vere e proprie guerre generazionali fra famiglie, la fonte di
Corsolungo non era stata certo un’eccezione.
Due
famiglie si contendevano il diritto di sfruttamento della falda che alimentava
il paese: i Formari e gli Agresi. La lotta era cominciata 200 anni addietro ed
ancora andava avanti, dividendo il paese ben più efficacemente di qualsiasi
passione politica o sportiva.
Quella
fra le due famiglie era anche una delle poche ‘guerre onorevoli’ prodotte dalla
mafia. Dove quasi ovunque, ormai, per arrivare al proprio nemico non si esitava
a coinvolgere gli innocenti, qui, a loro modo, i cittadini potevano dormire
sonni (quasi) tranquilli. Fin quando nessuno si fosse intromesso, solo i
diretti contendenti se la sarebbero visti fra loro; alla popolazione civile
spettava solo di obbedire al vincitore. E quelli si erano succeduti con alterne
fortune.
Nel
bar ‘Il Grifone’, era una giornata come un’altra: gli anziani si godevano chi
un caffè, chi un bicchiere di quello buono, e le carte la facevano da padrone.
I giovani, quelli che non stavano pascolando o coltivando i campi, erano a Palermo,
a lavorare.
A
Nino, il proprietario del locale, ciò andava benissimo: i ragazzi andavano
bene, c’era sempre bisogno di nuovo sangue, ma la nuova generazione faceva
troppo chiasso. Era praticamente stato costretto a cedere all’acquisto di un
sistema stereo e di luci per trasformare il bar in una specie di minidiscoteca,
e il fine settimana erano dolori per il sonno dei più.
Nino
sospirò, mentre puliva a specchio l’ennesimo bicchiere. Aveva fatto un tale
lavoro che i suoi vetri quasi erano diventati trasparenti. Sperò solo che
l’unico giovane presente nel bar non facesse danni. Non troppi, almeno…
Con
un fruscio della tendina, entrò un nuovo cliente. Eccoli, i guai, pensò Nino.
Il
nuovo venuto era un uomo sui quaranta, senza un filo di grasso addosso, con
indosso una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti. Le rughe
sul volto non erano dovute all’età, ma al sole. I suoi occhi come il carbone
erano accesi di una luce pericolosa. Con quegli occhi, fece una domanda
silenziosa a Nino.
Il
barista rispose indicando con lo sguardo l’ingresso alla sala giochi. L’altro
annuì. La gente continuò a giocare come se nulla fosse -in fondo, non erano
affari loro.
L’uomo
entrò nella sala, accolto dal suono di dadi che rotolavano.
In
piedi al tavolo da biliardo stava un uomo: sui trentacinque, capelli neri
lunghi, volto duro e spigoloso come la pietra. La sua espressione era
tranquilla, i suoi occhi bene attenti a nascondere qualunque fuoco interiore.
Indossava una maglietta scura e black jeans, indifferente al caldo. Era intento
a tirare due dadi sul velluto verde.
Appena
l’altro uomo entrò, il giocatore di dadi afferrò i cubetti e si voltò verso il
nuovo arrivato. “Ho fatto sei cinque volte di fila,” disse, con una voce che
Clint Eastwood da pistolero gli avrebbe invidiato. “Quando si dice lo spreco:
fossi così fortunato quando devo, avrei pelato voi Formari senza spargere una
goccia di sangue.”
L’uomo
più anziano si avvicinò. “Tonì, sono venuto solo perché mi va di sentirti
sparare le tue cazzate prima di pulire il pavimento con la faccia tua.”
Antonio Tomasi Agresi non sembrava
impressionato. Facendo saltellare i dadi nella mano, disse, “Compare bello, nessuna
cazzata. Sono sincero come l’acqua che beviamo: questa storia fra le nostre
famiglie è diventata ridicola.”
Vito
Formari serrò le labbra.
“Anziché
contenderci l’acquedotto, uniamo le forze. Entrambi amiamo Corsolungo, entrambi
siamo gli eredi del potere: cerchiamo, per una volta, di fare il bene nostro e della gente. Saremo entrambi comunque
ricchi abbastanza da risparmiarci uno spreco di sangue.”
Vito
sorrise, e non era un’espressione confortante. “Tuo nonno ci provò, e vedi che
fine ha fatto.”
“E
allora? Vogliamo arrivare al punto in cui non resteranno più eredi maschi? Io e
te siamo gli ultimi, Vito. O stai pensando di lasciare la famiglia a tua
sorella, oppure…”
“Oppure
vorresti sposarla, la mia Rosa? Non
negarlo, lo sanno tutti che le fai la corte da mesi. E non intendo lasciarla
nella mani di un Agresi, foss’anche l’ultimo uomo del mondo.”
Antonio
fece spallucce. “Io non intendo cambiare idea, compare: meglio una bella
nidiata di picciotti che uniscano le
nostre famiglie, che una destinata ad accentuare le divisioni.”
In
quel momento, entrarono altre tre persone nella sala giochi: tre marcantoni che
scoppiavano di salute, muscoli e voglia di usarli.
Vito
fece apparire come per magia un coltello a serramanico nel palmo. La lama
dell’arma era abbastanza lunga ed affilata da causare un danno letale solo a
guardarla. “Scusami tanto, Tonì, ma la tua proposta faceva schifo quando ne
parlò tuo nonno, e fa schifo ora. E visto che sei abbastanza fesso da girare
disarmato, e che sei solo soletto, diciamo che con te finirà questa lunga
faida. Ora, vuoi morire da uomo o da bestia scannata? Scegli tu.”
Antonio
smise di fare saltellare i dadi, e li tenne stretti nel pugno. “Molto
gentile…ma scelgo tua sorella. E con te con la schiena rotta, lei sarà libera
di scegliere me.”
I
tre tirapiedi furono lestissimi ad estrarre le armi e sparare in un solo movimento…ma
quando i loro proiettili esplosero, Antonio si era già tolto dalla linea di
fuoco con un salto!
All’apice
della parabola, il mafioso fece scattare il polso. I dadi volarono con
precisione infallibile, ognuno diretto in un occhio di un sicario. I bulbi
oculari esplosero all’impatto.
Gli
uomini colpiti caddero a terra, lasciando andare le pistole per reggersi il
volto insanguinato con urla strazianti.
Antonio
atterrò. Corse alla rastrelliera dove erano tenute le stecche da biliardo.
Il
terzo uomo ancora in piedi sparò; come era prevedibile che facesse, aveva
mirato alla schiena. Ad Antonio bastò buttarsi a terra, per lasciare che fosse
il muro a beccarsi un bel buco. Lo slancio lo portò direttamente contro la
rastrelliera. Urtandovi, prese una stecca.
Rotolò
via appena in tempo per evitare un colpo. Scattò in piedi e lanciò la stecca,
imprimendole un moto rotatorio.
Il
tirapiedi di Vito si beccò l’oggetto direttamente sulla gola. Emise un verso
strozzato e cadde, afferrandosi la gola, preda degli spasmi.
Ora
erano rimasti in due, e Vito era pallidissimo. Il coltello gli tremava nella
mano.
“Come
stavo dicendo, compare,” fece Antonio, “possiamo finirla qui e subito. Un bel
matrimonio, e saremo tutti felici. Oppure ti uccido e sposo Rosa comunque. Scegli
tu.”
Il
coltello cadde a terra. Gli occhi di Vito erano colmi di odio. Antonio sapeva
che avrebbe sempre dovuto guardarsi le spalle, ma oggi aveva conseguito una
pubblica vittoria fondamentale. Vito ci avrebbe rimesso la faccia, se avesse
osato farsela contro il fratellastro che Antonio sarebbe diventato.
Antonio Tomasi Agresi. Candidato Agente Falcone.
“Sì,
capisco,” disse Vitale, annuendo. “Ci sarà da lavorare un po’ per trasformare
questi ragazzi in una squadra affiatata, ma promettono bene. Soprattutto questo
Agresi: un uomo d’onore se mai se n’è visto uno. Credo che sarà un valido vicecomandante…Oh,
a proposito, ragazzo mio,” Vitale chiamava sempre Diego ‘ragazzo mio’, con
grande scorno di quest’ultimo. “E il nostro Legionario?
Ormai gli appaltatori dovrebbero avere finito di lavorarci sopra.
Diego
annuì. “E’ pronto ed aspetta solo i nostri ordini, Signore.”
“Ottimo!
Fatelo portare qui al più presto, allora. Diego, ragazzo mio, credo che presto
ci sarà da divertirsi poco per quelli che minacciano indisturbati il nostro
paese…”
UNA
NOTA DELL’AUTORE (Incredibile ma vero!): Vessillo, Madrepatria, Legionario,
Falcone e Partigiano, più che nascere, ebbero breve menzione in un articolo di
due pagine apparso su STAR MAGAZINE #37 - ‘Capitan Italia, il mito che non esiste’, di M.M. Lupoi. In tale articolo,
l’artista Marco Censi disegnò i suddetti e furono proposte cinque schede. I lettori
di quell’articolo troveranno qualche differenza fra
quelle schede ed i personaggi che appaiono qui, ma solo perché quelli proposti
su SM sono, per me, dei personaggi più finiti, più dei ‘punti di arrivo’ verso i quali tendere. Insomma, spero di essere
all’altezza nel darvi una tipologia di eroi che non debba necessariamente
essere ‘l’ultima della classe’ solo perché tricolore.